“La bellezza riguarda , però, anche la concezione di sé e la pienezza del proprio sentimento di se stessi e del mondo. In questo senso può indicare la capacità di ascolto delle risonanze del proprio mondo interno in relazione con gli altri e il mondo esterno”. E’ questo uno dei passaggi più delicati e pregni di significato. La bellezza, come giustamente Ugo Morelli sottolinea nel suo bel saggio, “non ha una dimensione individuale”, riguarda tutti e, consapevoli o no, tutti diamo il nostro contributo alla bellezza o alla disarmonia di noi e del mondo. In questa contemporaneità caratterizzata per la gran parte delle persone dal non-tempo, il concetto di bellezza inteso come pienezza del sentimento di sé e del mondo rischia di essere contagiato o, meglio, intriso proprio dalla mancanza di tempo. Non che questo connoti la bellezza come negativa ma, certamente ne cambia in modo sostanziale la prospettiva. Così come Duchamp con “Fontana” nel 1917 (una delle opere che Ugo Morelli sceglie in apertura del saggio edito da Allemandi) aveva costretto colei o colui che guardava quello che era stato un semplice orinatorio, riposizionato dall’artista, a capire il significato di un oggetto trapiantato dal mondo ordinario all’ambito dell’arte, così l’essere umano del terzo millennio ha bisogno di un nuovo paradigma per il concetto di bellezza e per quel “sentimento di pienezza di sé e del mondo” di cui scrive Morelli. Perché se è vero che il mondo trabocca di volgarità, è anche vero che sono gli esseri umani ad “affrescare”, vivendo, il mondo. E se, come Ugo Morelli sostiene esaustivamente nel suo saggio, l’essere umano è un “infante simbolico” e ancora, se una delle caratteristiche che distingue il cucciolo umano da quello di altre speci animali è la diversa autonomia di sé (i cuccioli animali diventano autonomi molto, molto prima degli esseri umani), allora c’è un gran bisogno che le menti consapevoli e più mature (non infantili) di alcuni esseri umani, elaborino, creino, inventino e propongano paradigmi diversi in cui riconoscere sè stessi e il mondo per un tramite che diventi riconoscibile. Ciò che cambia nel contesto contemporaneo è, per forza, la narrazione di sè e del mondo. La provocatoria opera di Duchamp presentata all’esposizione degli Indipendenti di New York fu, come ci si poteva aspettare, sottratta agli squardi da parte degli organizzatori della mostra. Lo scopo di Duchamp, annullare ogni indizio narrativo tradizionale, non era di facile comprensione. Infatti non è immediatamente riconoscibile che l’orinatoio, nel momento in cui, riposizionato, diventa “Fontana” è un oggetto “trasparente” al suo significato. Di più: è un riconoscimento scatenato dall’oggetto ma non centrato su di esso. Tanto più che non riguarda il tempo d’esistenza dell’oggetto, ma nemmeno quello dell’esperienza o della comprensione di chi lo guarda. Il readymade “Fontana” trasforma il flusso lineare del tempo: non c’è più progressione fra lo sguardo sull’oggetto e la comprensione del suo senso. Così come Duchamp conferì all’esperienza dell’arte una forma circolare allo stesso modo dovremmo tentare di fare noi per comprendere noi stessi e il mondo. “La pienezza del sentimento di sé stessi e del mondo” non può prescindere da una circolarità che inneschi la comprensione di noi stessi attraverso il rapporto con noi stessi e noi stessi con il mondo. Ma questo, come meravigliosamente spiegato in alcuni capitoli di “Mente e Bellezza”, presuppone il riconoscimento dell’essere umano non più come centrato su di sé, ma sulla relazione di sè con l’altro. Spostare il significato di sé stessi da una concezione centrata sull’ “io”, anziché sul “noi”, come argomenta Ugo Morelli, significa ri-configurare l’essere umano. Estendere il proprio spazio, lo spazio della concezione di sé, in una prospettiva di relazione vuol anche dire creare, concepire una circolarità che forse ancora non vediamo, non riusciamo a com-prendere. Perché, posto che non siamo oggetti, riposizionare noi stessi nei confronti di noi stessi e di noi stessi con il mondo, presuppone un dialogo profondo con la nostra “mente incarnata”. La mente, giustappunto, è “incarnata” in noi e la sua collocazione-posizione rispetto a noi e a un cambiamento di idea sul rapporto di noi stessi con noi stessi e di noi stessi con il mondo non è una questione facile. Ma, così come l’installazione arbitraria di un readymade nello spazio di una galleria d’arte costringe chi guarda, forzandolo, a considerare la stranezza del contesto estetico per sé, allo stesso modo dovremmo guardare noi stessi oltre noi stessi, com-prendendo un’estensione del nostro spazio: “me stesso in relazione a me, me stesso con l’altro e il mondo”. E come se ci fosse bisogno, al pari di un’altra opera di Duchamp “Slitta contenente un mulino ad acqua in metalli vicini”, di un fondo trasparente. Come se il nostro “io”, “noi” e il “mondo” potessero essere com-presi in uno spazio fra due lastre di vetro e noi potessimo guardare oltre, vederci in un contesto diverso dalla nostra mente. Il fondo trasparente estendendo, oltre noi, il nostro spazio rigetterebbe la nostra tradizione narrativa.
Perché se è vero come diceva Costantin Brancusi, per rimanere in un contesto artistico dei primi decenni del XX° secolo, che “c’è uno scopo in ogni cosa: per coglierlo si deve fare a meno di sè stessi”, allora per comprendere il significato di noi stessi in rapporto con noi stessi e con il mondo, dobbiamo rinunciare a noi stessi e modificare o, meglio, deformare la concezione di noi stessi. Esattamente come Brancusi faceva con le sue sculture: deformando una geometria ideale e, come per “L’inizio del mondo”, ascrivendo tutto a una questione di posizionamento. Costringendo così chi guarda l’opera a riconoscere il modo singolare che la materia ha di inserirsi nel mondo, e dove è il posizionamento a “tradire” lo stato dell’essere dell’opera.
Una parte di fascino del saggio “Mente e Bellezza” sta proprio nell’aver aperto un dibattito, un luogo, anzi, un non-luogo, una dimensione oltre i nostri consueti “luoghi”, una nuova prospettiva sulla rinconfigurazione di noi stessi. E proprio perché noi esseri umani ci distinguiamo dagli altri del mondo animale per la nostra esperienza estetica, o almeno di questo ci siamo convinti, la visione complessiva della concezione di noi e la pienezza del sentimento di noi stessi e del mondo dipende dal nostro posizionamento. La prospettiva da cui ci guardiamo cosa com-prende? Come ci vediamo? Cosa vogliamo vedere e com-prendere di noi stessi? E degli altri? Come viviamo la relazione con noi stessi e noi stessi in rapporto con l’altro?
Sono alcuni dei molti interrogativi che hanno bisogno di risposte o, meglio, di ipotesi di nuove prospettive. Perchè è indubbio che per innovare la visione di noi stessi in relazione a noi e all’altro da noi, il tempo - non solo inteso come misuratore dell’evoluzione dell’Homo sapiens sapiens - giochi un ruolo fondamentale. E non è solo decidendo di annullare il significato convenzionale di tempo per donarci un nuovo senso e ritmo della relazione con noi stessi e con l’altro, che si esaurisce la ricerca della “concezione di sé e la pienezza del proprio sentimento di sé stessi e del mondo”. Percorrere il nostro tempo in una prospettiva che ci comprenda come relazione, quella - scrive Ugo Morelli - “che è parte fondante di noi e che ci permette di ridefinire l’idea di noi stessi in rapporto con la mente, il cervello e il mondo”, vuol anche dire fare i conti con una contemporaneità dall’andamento rapsodico. Il passo del nostro tempo è veloce, frenetico, l’ansia e l’inquietudine tormentano i nostri corpi, scompigliano le nostre menti. Sentimenti spasmodici ci attraversano. Un ritmo schizzofrenico accompagna il nostro agire. La ricerca di senso si muove su uno spartito che si interrompe qua e là bruscamente. L’andamento del nostro tempo deve fare i conti con la nostra stessa sopravvivenza. A connotare la nostra ricerca di senso non sono più le devastanti guerre del XX° secolo che hanno generato le avanguardie artistiche di Marcel Duchamp, Kazimir Malevič o Piet Mondrian. La nostra esperienza estetica deve fare i conti con l’angoscia dell’esaurimento di alcune risorse naturali. Lo sfruttamento esasperato dei giacimenti naturali sotteranei di carbonio e idrogeno - il petrolio - l’oro nero della nostra epoca, ha cambiato completamente le nostre vite imprimendo non solo un ritmo diverso e frenetico ma deviando la nostra ricerca di senso verso un corso consumistico disorientante e sfrenato. L’esperienza estetica si confronta con il tormento della sopravvivenza, posto che le economie del mondo ruotano quasi esclusivamente intorno alla scoperta di Edwin Drake, l’americano che aprì il primo pozzo petrolifero redditizio del mondo. E non a caso le nuove guerre si originano per cause non ben determinate, vengono definite guerre contro il terrorismo e le zone dei conflitti sono le stesse dei grandi giacimenti di oro nero non ancora sfruttati.
La riconfigurazione di noi stessi non può esimersi dal contesto sociale ed economico del mondo. Il passaggio da un’economia fortemente centrata sullo sfruttamento sfrenato delle risorse e sull’arricchimento materiale di poche elite, verso un nuovo necessario e diverso equilibrio del mondo coinvolge l’essere umano nella sua intierezza. Ed è sempre attraverso l’arte e l’esperienza estetica che ha origine la nuova ricerca di senso, tanto più in una fase di cambiamento epocale come quella che l’umanità si appresta a vivere, consapevolmente o no.